Faccio sempre più fatica a scrivere sui social network. Girano troppe parole. Penso a FB. Non me ne frega niente di sapere cosa ha mangiato la gente a Pasqua. Una volta c’era il diario segreto. Li vendevano con i lucchetti e ci scrivevi gli affari tuoi. Punto. Adesso devi far sapere anche a Singapore che non digerisci l’aglio. Copi 10 aforismi e insegni al mondo il senso della vita. Oggi però devo scrivere, perché da pochi giorni è morto FRANCO CALIFANO.

Sono in debito, mi aveva telefonato meno di un anno fa, mi aveva detto vediamoci. Non era un “vediamoci” generico, voleva sapere se potevo esserci la sera stessa a cena (quei giorni ero a Roma), oppure in quale altro giorno della settimana. Invece non l’ho più visto. Mi sono sempre domandato perché con me fosse sempre così attento e gentile. Ovviamente non lo saprò mai.

Franco l’ho conosciuto in una vita talmente distante che non mi sembra neppure più la mia. Me lo presentarono Bea, Claudia, Laura e Ludovica (in ordine alfabetico, così non rompono le palle), le sue amiche del cuore, le balene. Da allora (1985? Boh!) in momenti alterni ci si è sempre incrociati. Non mi perdo in ricordi e aneddoti, posso solo dire che ho conosciuto mia moglie grazie a Franco, dopo un avventuroso viaggio notturno Roma-Senigallia con la sua Corvette ad una velocità impossibile. Hanno scritto cose bellissime su di lui, persone che lo conoscevano molto meglio di me, però un piccolo episodio voglio raccontarvelo: era notte e di ritorno da un suo concerto si viaggiava in autostrada con due auto, prima del casello Franco mi ha superato ed ha pagato anche il mio pedaggio. La sua generosità infinita andava oltre il dettaglio. Non se ne vantava, per lui era normale, tutto qui.

Sono un cane, non gli ho mai portato neanche il libro che ho scritto su Evaristo Beccalossi, uno dei suoi pochi miti. Nel libro parlo di Franco e del Becca uniti da infiniti e diversi talenti. Per certi versi, geni compresi solo in minima parte, non collocabili in nessuna casella sociale codificata. Quelle righe ora le riporto in questa pagina:

“Evaristo amava Franco Califano perché la sua voce sapeva condurlo distante; anche lui era un fantasista che preferiva correre lontano dalle convenzioni, alla ricerca delle zone più inesplorate del campo. E Califano, interista da sempre, non si sarebbe mai perso una sua partita, perché quel ricciolino con il numero dieci rappresentava l’essenza del calcio. Per farli conoscere non ci volle una stretta di mano. Bastò la poesia.”

Caro Maestro, odiavi la banalità e io mi fermo qui.

Luca