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Storia di un abbraccio

Cosa racconto a cinquecento studenti colpiti a tradimento dalla vita? Come spezzo questo silenzio terribile? Che argomenti posso utilizzare per creare un filo tra loro e la vita che comunque va avanti?

Le parole non restituiscono vite, le parole del “dopo” mi ricordano i fiori appassiti. E comunque qualcosa bisogna pur dire, perché il silenzio di questa platea immobile, di secondo in secondo è diventato insostenibile.

Sono le 9,30 di lunedì mattina, il piazzale antistante l’Istituto d’Istruzione Superiore “Bettino Padovano” di Senigallia si riempie lentamente di ragazzi, alcuni zoppicano perché non è stato semplice uscire indenni da quell’inferno. Restiamo all’aperto perché l’aula magna non era sufficientemente capiente ma Anna Maria Nicolosi, la Preside, vuole che siano tutti presenti. Ha ragione.

Ora il piazzale è stracolmo. Sono tutti in attesa di un qualcosa anche se nessuno, compreso me, ha idea di cosa significhi “qualcosa” in una giornata del genere.

Mi trovo lì perché la Professoressa Patrizia Marasco, amica da una vita, domenica mi aveva chiesto a nome dell’Istituto di intervenire, di trovare parole sensate per affrontare questo lunedì surreale.
Arriva il momento, la Preside mi passa il microfono, guardo ciò che ho di fronte e scopro che sono cinquecento figli che hanno bisogno di noi.

In prima fila ci sono delle ragazzine che piangono composte, poi scopro che anche nella seconda fila c’è chi sta piangendo, allungo lo sguardo e vedo che lacrime e occhi gonfi sono il comune denominatore di questa platea muta.
Se già riuscissi a non piangere sarebbe un buon risultato, questo è l’ultimo pensiero che mi attraversa la mente, prima di aprire bocca.

Nella mezz’ora seguente dico molte cose a queste creature fragili e speciali.
Spiego che quanto è accaduto è per colpa mia perché conoscevo quel luogo. Mia figlia troppe volte mi aveva parlato del sovraffollamento e di quanto fosse difficile persino ballare.
Colpa mia, perché non ho denunciato la cosa, affidandomi alla penosa teoria dello sguardo basso.

Colpa mia, perché sono rimasto aggrappato ad una falsa certezza da quattro soldi, quella del “tanto non capiterà nulla”. Colpa mia se non sono mai riuscito ad evitare che Marta frequentasse un posto del genere, rimanendo travolto da quel famoso “ci vanno tutti”.

Ho delle colpe. E’ innegabile e oggi voglio pensare esclusivamente alle mie. Che sia la magistratura a fare tutto il resto. E allora, se cambiamento deve essere, voglio fare in modo che parta da me. Non esistono strade alternative o scorciatoie per ipotizzare un cambiamento.
Noi siamo stazione di partenza e capolinea di questo processo mentale.

Continuo a parlare girando alla larga dal facile pietismo e dalla retorica. Esorto i ragazzi a non prendere in considerazione chi si rivolge a loro utilizzando come incipit “ai miei tempi era tutto diverso”. “Ai miei tempi” è la negazione del presente, è un presupposto statico e nostalgico che non porta da nessuna parte.

E’ adesso che dobbiamo capire come contrastare il sexting o il cyberbullismo, è adesso che dobbiamo capire come far comprendere ai ragazzi che le droghe sintetiche sono più maledette dell’inferno. E’ adesso che dobbiamo convertire questa tragedia immane in un processo di crescita.

Mi rendo conto che le parole arrivano, non sono vuote, lo leggo negli occhi lucidi e smarriti dei ragazzi, e questo “qualcosa” che andava detto, alla fine ha preso forma. Miracolo della comunicazione generata dalla empatia.

Chiudo senza aver versato una lacrima, il microfono scivola tra le mani della Professoressa Silvia Di Nicolantonio, ha l’aria dolce Silvia e quando inizia a parlare succede quello che deve succedere. Piange Silvia, piange e racconta che sua figlia Sara, 15 anni e secondo anno di Liceo Scientifico, l’altra sera era a “La Lanterna Azzurra”.

Sara era scivolata nell’inferno, sepolta tra quei corpi ammassati uno sull’altro, quando delle mani l’hanno tirata fuori. Quell’angelo custode l’ha salvata. Sotto la morte e sopra la vita, nessun compromesso. E piange ancora di più Silvia, quando dice che quell’angelo si chiama Filippo ed è tra i cinquecento ragazzi che la stanno ascoltando.

Adesso possiamo finalmente piangere tutti ed è un qualcosa di liberatorio, un’esplosione di emozione collettiva che sembra non finire mai. C’è poi il loro abbraccio. Lungo, intimo, silenzioso. Mi sposto In punta di piedi e scatto la foto.
La nostra speranza riparte da lì.

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Sono morti i nostri figli

Sono le 2,30 di notte. Squilla il telefono di Riccardo, mio amico e papà di Laura. C’è proprio lei al telefono, è sotto choc perché la morte spaventa tutti, ma quando ti sfiora a 15 anni rappresenta un fatto non codificabile: “Papà, qui c’è stata una tragedia, io per fortuna sono scappata dalla parte giusta”. Poi la notte in bianco, le lacrime, il tentativo di riconnettersi con la realtà, ma tutto è stravolto. Siamo finiti dentro la pagina di un libro che non ci appartiene. Testa o croce. A Laura e alle sue amichette è andata bene. Ad altri no.
Le parole, le immagini, le testimonianze, i commenti si fermano sul bordo del baratro. Non è possibile procedere oltre. Per nessuno. “Don’t cross the line” c’è scritto sui nastri di plastica che usa la polizia per delimitare la zona del crimine. Qui è la stessa cosa. Da una parte le parole e dall’altra i morti.
Ho sentito decine di volte, in questi anni, pronunciare da mia figlia questa frase : “Papi, vado a La Lanterna”. Mai stato tranquillo di fronte a quelle parole, perché le poche volte che la sono andata a prendere (in genere rientrava con la navetta) mi ero trovato di fronte a un gelido campo profughi perso nel mezzo della campagna. Ragazzi a torso nudo che bivaccavano all’aperto alle quattro di mattina ricoperti solo dalla nebbia pungente dell’inverno. Vomito ovunque, gente che camminava senza meta stordita da alcol e non solo.
E tutte le volte la stessa domanda fatta a mia figlia: “Ma come facevate a stare tutti lì dentro?” è tutte le volte la stessa risposta : “Hai ragione papi, ogni tanto devi uscire a respirare, perché lì dentro non ce la fai a muoverti”.
Ogni rientro a casa all’alba aveva il sapore di un pericolo scampato. La notte di un genitore si divide in due parti: la prima è fatta di un sonno leggero accompagnato da un sottile velo di angoscia, perché sai che tuo figlio (la cosa più importante della tua vita) è stipato come un maiale in un allevamento intensivo, all’interno di un anonimo capannone. Un fragile cristallo sbattuto dentro la centrifuga di una lavatrice. La seconda parte della notte, quella in cui riesci finalmente a prendere sonno, corrisponde al rumore della chiave nella serratura della porta di casa. Allora ti rilassi, allora pensi “è andata bene anche questo giro”.
Una volta con mia moglie andammo a “recuperare” Marta a “La Lanterna”. La notte era illuminata da bagliori sinistri di fuoco che si alzavano alti. Sirene e Vigili del fuoco. La macchina andava avanti per forza d’inerzia accompagnata solo dal nostro silenzio che assomigliava al terrore.
Arriviamo e scopriamo che un gigantesco fienile a due passi dal locale sta bruciando, un incendio che si è poi protratto per oltre 24 ore.
Ricordo la sensazione di pericolo scampato, di paura che si scioglie lasciando il posto a un sollievo infinito.
Questa volta è andata diversamente. Adesso tutto è veramente accaduto. Probabilmente dentro erano in troppi, probabilmente qualcuno ha utilizzato una bomboletta di gas urticante, “probabilmente” in questi casi è la parola più gettonata, ma purtroppo, al momento, la sola certezza è quella del dolore. Forse noi genitori dovremmo essere meno succubi dei nostri figli, perché in fin dei conti sappiamo che dentro quei capannoni travestiti da discoteche c’e poco da stare tranquilli, ma poi i ragazzi ci sputano in faccia una frase che utilizzano come un lasciapassare : “Guarda che ci vanno tutti!! Non posso essere il più sfigato!!”. E allora noi, docili, come agnelli, di fronte a quella frase ci arrendiamo, li lasciamo andare e incrociamo le dita sperando che tutto vada bene. Questa volta è andato tutto male.
In quell’angolo di campagna apparentemente innocua sono morti i nostri figli. Quelli hanno le Nike, i jeans a tubo, le caviglie scoperte e qualche tatuaggio sparso, frutto di trattative estenuanti con le madri. Sono morti i nostri figli che l’otto dicembre avrebbero dormito fino a mezzogiorno, presentandosi direttamente per il pranzo con gli occhi ancora pieni di sonno.
In questi giorni ho ripreso in mano “La banalità del male” di Hannah Arendt ed è proprio vero che molte tragedie si consumano così, perché il male a volte per essere generato non richiede un impegno eccessivo. Basta voler guadagnare cinquemila euro in più, riempiendo un capannone come fosse un vagone merci che punta su Auschwitz. Basta vendere dieci bottiglie in più di super alcolico, fregandosene di tutto. Ciò che conta sono i soldi finiti in cassa. Basta spruzzare un gas urticante pensando che sia un gioco o poco più.
E qui finiscono le mie parole che si uniscono a quelle di tanti altri. Qui finisce tutto. Resta il silenzio. Resta la speranza che i feriti gravi riescano a sopravvivere e che si trovino i colpevoli. Resta scolpita per sempre nei nostri calendari una data di morte. 8 dicembre 2018

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La “mia legalità” raccontata agli studenti delle Marche e al Presidente Grasso

Parlare di legalità di fronte al Presidente del Senato Pietro Grasso e quasi mille studenti non è stato emozionante. È stato terapeutico. Esiste una parte del paese che ancora immagina che le cose possano cambiare, nonostante tutto, mi viene da aggiungere. E notare questo aiuta ad andare avanti, a procedere nel cammino.
Come ho detto all’interno dell’Aula Magna dell’Università Politecnica delle Marche, la parola legalità ha perso valore, è stata stuprata da troppi colletti bianchi con auto blu che l’hanno usata a sproposito.
La parola legalità andrebbe rigenerata e protetta come certi fiori rari che rischiano l’estinzione. Questo si può fare in tante maniere, ad esempio applicando la certezza della pena nei confronti dei tanti che mentre parlano di etica e legalità, rubano denaro pubblico e delinquono indisturbati.
Il ladro in giacca e cravatta che si finge paladino di giustizia e portatore di etica è tra le cose più repellenti partorite dalla nostra società.

Luca Pagliari e Pietro Grasso

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Il 3 febbraio presento alla Politecnica delle Marche il film sulla Lega del Filo d’Oro

Vi aspetto alle 17,30 del 3 febbraio, presso la Facoltà di economia dell’Università Politecnica delle Marche, per la presentazione di “50 anni di vita, storia di un sogno”. Sarà un pomeriggio interessante, vi garantisco che il film “rapisce”, trascina lo spettatore dentro un mondo incredibile e sconosciuto… quello della Lega del Filo d’Oro.

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“L’altra metà del mare” – Ancona (AN)

Martedi 2 settembre – Ore 19 – Ancona, Biblioteca Benincasa, via L. Bernabei 32.

Presentazione di “L’altra metà del mare” docufilm realizzato da Luca Pagliari, dedicato al ruolo delle donne nel mondo della pesca.

 

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Rapporto Scuola-Lavoro

Mercoledì 20 maggio 2009 alle 9.30, all’ITIS “Volterra” di Ancona si parla del rapporto tra mondo scolastico e lavoro.

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